L’ ETR 253 in attesa di essere accoppiato ad un altro elettrotreno, sosta nella rimessa del deposito di Milano Centrale nel marzo del 1974. Foto Pozzi, archivio Massimo Dones.
ERA ANCORA BUIO quando la 81 scaricò due uomini, allontanandosi poi lungo Viale Ernesto Breda in direzione del suo capolinea. In quel deserto freddo e brumoso del dicembre milanese del 1977 gli unici segnali di vita provenivano dal bar Dei biliardi. Dentro, a insegne accese, il gestore approntava le sue due cromatissime Faema per la mattinata di lavoro: e già, c’erano in vista le consuete centinaia di espressi e cappuccini. A pochi metri da lì, dopo aver varcato la soglia della portineria del Deposito Locomotive di Milano Centrale, “Greco” per i ferrovieri, i due percorsero a passo svelto prima il sovrapassaggio della linea di Como, con di sotto un lentissimo merci di idrocarburi che scivolava verso Monza, per scendere poi sul camminamento che portava alle rimesse dell’Alta Velocità. Era un orario magico: lungo i vialetti, i coni di luce dei fanali illuminavano le fantasmagorie della brina sugli olmi, sui cavi della rete aerea, sui coppi dei fabbricati, sui binari; nella fontanella in ghisa brillava immobile una piccola stalattite di ghiaccio. Gli uomini erano preceduti dai bianchi pennacchi dei loro fiati; discorrevano di famiglie, del sindacato, del Natale che stava per arrivare. Oltre la luce delle torri sui fasci dei binari si cominciavano a percepire in lontananza i ronzìi delle macchine operatrici, i tonfi regolari e solenni delle presse delle fabbriche della Bicocca.
I due giunsero alla rimessa quando il vecchio orologio decò sulla facciata segnava le cinque e trenta. Era un grosso fabbricato di inizio secolo, in mattoni; una porta sul suo fianco condusse gli uomini all’interno, illuminato a giorno dalla luce di potenti fari al neon appesi alla tettoia. La rimessa, un lunghissimo capannone, era percorsa longitudinalmente da una decina di binari senza traversine, tronchi da un lato; i binari non erano poggiati sul pavimento, posto più di un metro di sotto, ma erano retti in aria da solidissimi paletti di acciaio ordinati in stretti intervalli e sostenevano, come sospesi in aria, sette slanciatissimi treni. Nella loro elegante livrea in grigio perla e verde magnolia gli ETR, gli elettrotreni, riposavano inerti nella notte che volgeva ormai al termine. Perché sì, è vero, anche i treni dormono, e quei gargantua non attendevano ormai che l’intervento umano dei macchinisti, operando il collegamento del trolley con il cavo d’alimentazione, li risvegliasse: ecco dunque chi erano i due scesi da quell’autobus.
Scambiate quattro chiacchiere con il capo rimessa di turno e prelevati i documenti di servizio con le chiavi e gli orari d’accesso ai banchi di manovra i nostri uomini raggiunsero il loro treno alla fossa – così vengono chiamati i binari in rimessa – numero 4: una coppia mista di ETR 220 e ETR 250 per il rapido 851 “Rialto” Milano – Venezia Mestre – Trieste.
Salite le scalette, con in sottofondo il solo rumore di passi nel semibuio delle carrozze vuote, arrivarono in cabina guida per operare le procedure d’attivazione: innesto della chiavi di sblocco, inserzione della striscia di registrazione della velocità nel tachigrafo, prova a vuoto del circuito di comando; le spie del quadro si accesero e poi spensero tutte insieme, segno che il sistema era a posto. I due giganti d’acciaio potevano dunque svegliarsi: uno scintillare azzurrognolo illuminò le loro lunghe sagome quando gli striscianti dei pantografi aderirono al cavo della linea elettrica; alimentati ora dalla corrente di linea, si accesero i neon delle carrozze e si avviarono i gruppi elettromeccanici e le apparecchiature secondarie; l’enorme hangar era ora riempito dal suono dei compressori, dal sibilo delle ventole e dal ronzio delle altre apparecchiature. Il tempo per i macchinisti di compilare le carte di servizio, che l’aria compressa dei gruppi di frenatura raggiunse la pressione d’esercizio: ci si poteva dunque muovere. Un paio di colpi di tromba per chiedere strada e nel piazzale fuori, a sinistra del binario, la marmotta sulla massicciata ruotò, nascondendo il lato bianco e nero e mostrando quello tutto bianco opalescente. Più in fondo il semaforo dava verde: via libera.
Con gli occhi puntati sul binario il maestro, il viso riflesso dal cristallo della cabina, posizionò sulla prima tacca il combinatore di marcia. Sul quadro, diverse spie si accesero, altre si spensero, e le lancette degli indicatori presero a muoversi: i due elettrotreni agganciati in doppia trazione sussultarono e poi, dolcemente e lentamente, vennero fuori della rimessa scivolando lungo i fianchi dei fratelli ancora dormienti: una doppia di ETR 220 dal muso a punta, due altri Arlecchino e un Settebello, tutti in attesa dei loro turni. Con un lieve sibilo dell’aria dei freni il Rialto si arrestò dopo un centinaio di metri, in prossimità del raccordo che collegava il fascio binari della rimessa alla linea per Milano Centrale; il macchinista, azionata la tromba, sporse appena il capo fuori del finestrino sinistro della cabina di guida e facendo imbuto con le mani gridò numero del treno e destinazione verso una garitta che, poco oltre il margine della sede ferroviaria, giaceva illuminata da una fioca lampadina. Da questa si vide venir fuori una sagoma infreddolita: era quella del deviatore, il quale sgambettò tra i binari umidi di brina e agì a mano sui meccanismi di alcuni scambi, disponendoli a comporre 1’istradamento per la destinazione richiesta; dopo aver finito, agitando la bandiera tenuta fino a quel momento sotto il braccio si rivolse al muso aerodinamico dell’elettrotreno e gridò di procedere. Il gigante prese nuovamente a muoversi, e i motori accelerarono con leggeri strappi; nella cabina guida, appena illuminata dalle lucine del quadro comandi, era iniziato il ticchettio ritmico dei relais elettromeccanici del circuito di comando. Poco dopo, completata la transizione di marcia, la spia bianca della combinazione Serie smise di lampeggiare; i relais allora tacquero, la velocità del treno si assestò sui 60 km orari e gli unici rumori in cabina rimasero quelli del cronotachigrafo e del sobbalzare ritmico sulle giunzioni dei binari. Il treno costeggiò le banchine della stazione di Greco Pirelli, mentre su un altro binario uno dei primi accelerati della mattina scaricava plotoni di pendolari in tuta blu per il primo turno delle varie Pirelli, Breda, Falck. L’immagine del vecchio E.424 davanti a quelle grigie carrozze dalle panche in legno con intorno quella fiumana di persone infagottate e intirizzite, dall’andatura curva e dai visi assenti e disillusi faceva a pugni con quella del lucido treno rapido di sola prima classe, destinato a passeggeri che menavano ben altra vita. Lasciandosi alle spalle la questione il Rialto risalì per il curvone di Greco, superò i lumini del cimitero di lì sotto e infine sfilò lungo le ca’ de ringhera; un ultimo semaforo verde dopo il bivio Turro aprì alla vista la spianata metallica degli scambi e degli incroci della stazione Centrale e le sue cinque grandi campate di ferro e vetro. Sullo sfondo, stagliata nell’oscurità, si intravedeva la silhouette del neonato centro direzionale; sul grande grattacielo Pirelli le finestre non erano ancora illuminate: per i colletti bianchi, si sa, il cartellino non si timbra che alle otto.
In cabina dell’ETR il macchinista titolare escluse la trazione e dette poi un colpetto d’aria ai freni, giusto per attestare la marcia sui 30 o 40 km/h: ormai i carrelli molleggiavano dolcemente sulle giunzioni dei binari, strattonando appena su cuori e deviate degli scambi, i trolley invece sfiammavano di scintille bluastre sotto i fratti neutri della catenaria. I due elettrotreni presero a snodarsi con un moto serpentesco in direzione delle ancora lontane banchine passeggeri e passarono sotto una delle cabine di movimento sopraelevate, dietro le vetrate delle quali i responsabili della circolazione erano impegnati a seguire il traffico su una grande lavagna nera puntata di luci. Infine, rallentando ancora, il treno raggiunse la navata metallica centrale della grande stazione. Gli orologi a palo, sulle banchine semideserte ed illuminate a giorno, segnavano le sei e qualche minuto. Pur nel silenzio della scena, dalla cabina guida i messaggi al pubblico diffusi dagli altoparlanti suonavano appena percettibili. Il titolare azionò il freno: si udì il sibilo dell’aria compressa, inconfondibile, del distributore svizzero Oerlikon. I due elettrotreni ormai procedevano a passo d’uomo e, con un ultimo espirare dell’aria dei freni, si arrestarono definitivamente a pochi metri dal paraurti di testa. Disattivata la cabina, i macchinisti ne discesero e si diressero verso quella opposta, in attesa della partenza. I viaggiatori cominciavano ad affluire, un addetto montava sulle fiancate i cartelli gialli della destinazione, e un nuovo servizio andava a incominciare.
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