I carri coperti di origine ungherese delle FS
CENTOQUATTRO E ROTTI ANNI FA gli Imperi centrali cedettero le armi e firmarono nella Villa Giusti l’armistizio che pose fine alla Grande guerra: era il 3 novembre del 1918.
Nel successivo lunghissimo conteggio degli indennizzi dovuti dai vinti fu fatto rientrare tutto ciò che poteva essere utile alla ricostruzione: si era negli anni nei quali la ferrovia era ancora il primo e più importante mezzo di trasporto e dunque le FS, nate relativamente da poco, si trovarono a ricevere centinaia di migliaia di tonnellate di materiale rotabile tra locomotive a vapore, carrozze e, in numero decisamente preponderante, carri merce.
Per questi apparve subito impossibile fare un inventario e compilare un registro generale: i carri erano sparpagliati in file chilometriche lungo i binari di dozzine di stazioni prossime ai confini della nazione, e smistarli nelle officine con razionalità per tipo e caratteristiche sarebbe stato molto costoso e avrebbe generato un traffico enorme sulla rete, già molto impegnata da ben altri movimenti. La soluzione fu di marcare i carri lì dov’erano, dando a ciascun officina un novero dedicato di numeri da utilizzare. Si stabilì comunque di rispettare la prassi che voleva le matricole dei carri coperti E e F cominciare con 1, quella dei carri G con 2, H con 3, L con 4, M con 5 e P con 6, preceduta però su tutti dalla cifra 7 per distinguerne l’origine forestiera. Per fare un esempio fantasioso – i dati precisi sull’argomento non sono mai venuti fuori – il deposito di Verona avrebbe potuto disporre per i carri chiusi di tipo G delle matricole da 7 200 000 a 7 200 599, e questo indipendentemente dai loro tipi, tare, portate, reti di provenienza e altre caratteristiche; altre officine avrebbero avuto numeri con diversi intervalli.
Va aggiunto, tanto per confondere ancora di più il ricercatore e il lettore, che i tanti veicoli di nazionalità ostile già presenti allo scoppio del conflitto sui nostri binari erano stati prontamente confiscati e subito inglobati nel parco FS; per distinguerne l’origine furono tutti marcati, indipendentemente dal tipo, con numeri progressivi di sei cifre comincianti con lo zero.
Le procedure per incorporare i mezzi ricevuti dopo l’armistizio furono, per le FS, come aprire una balla di vestiti in un mercatino dell’usato: se moltissimi veicoli rasentavano, soprattutto per anzianità, l’inutilizzabile, almeno altrettanti però versavano in buone condizioni ed erano di più recente costruzione. Tra questi vanno citati i carri chiusi di origine ungherese, che avrebbero nei decenni successivi accumulato una carriera per i più forse oscura, ma non per questo meno proficua.
Erano carri provenienti dalle ferrovie dello stato ungheresi MÁV e da altre reti minori di quel regno, e non bisogna confonderli con i cugini di tipo austriaco delle k.k.St.B. e Südbahn. Li si può grossolanamente dividere in due grosse famiglie, una con passo 4000 mm e l’altra con passo 5000. I carri a passo corto a loro volta potevano essere dotati di terrazzino, nel qual caso il telaio si presentava leggermente allungato, oppure no; i carri a passo lungo invece erano con garitta e portavano, al di sotto del telaio, due tiranti triangolari di rinforzo. La cassa, invece, era la stessa per tutti.
Come la stragrande maggioranza dei carri chiusi mitteleuropei e germanici, avevano il tetto in tela calatafata, leggermente incurvato verso i lati; le fiancate erano di doghe in legno disposte in orizzontale e inchiodate su sei montanti metallici verticali, a loro volta rinforzati da delle traverse oblique, borchiate su piastre romboidali. Seguitando nei cliché dell’epoca, ai lati di un portellone scorrevole si aprivano due finestre, chiuse con delle robuste griglie metalliche intrecciate e degli sportelli interni a ribalta.
Secondo i registri e i disegni originali, i carri con passo 5000 erano dotati di freno Westinghouse. Tuttavia nella quasi totalità dei casi le FS ebbero progressivamente a rimuoverlo, lasciando in opera solo quello a vite. I carri con passo 4000 erano, invece, tutti senza freno.
Entrambi i tipi conservarono le loro ferramenta, salvo pesanti e comunque rare ricostruzioni. Sui carri a passo lungo erano normalmente montati dei parasala stretti, assai simili ai tipi K.k.St.B; quelli dei carri a passo corto erano invece più larghi. Tutti, o quasi, ebbero le boccole sostituite con quelle FS dei tipi più umili, spesso di recupero: 30, 40 e occasionalmente anche 40b.
Come spesso succedeva per i veicoli di età avanzata, le riparazioni erano sovente occasione per rimodernare e unificare particolari obsoleti o, nel caso dei MÁV in questione, lontani dagli standard FS. Una tipica sostituzione riguardò i respingenti: gli originali ungheresi, dall’aspetto davvero primitivo, furono via via sostituiti dai nostrani tipo 1 con custodie 55, anche questi recuperati da veicoli sui quali venivano trapiantati tipi più moderni. Furono tuttavia moltissimi i carri ex bello che finirono i loro giorni con quelli originali.
Nei documenti FS c’è amplissima traccia del lavoro svolto in Italia da questi carri, molti dei quali furono alienati solo negli anni 60. Furono inquadrati indifferentemente nelle serie F e G, che come sappiamo si riferiscono al tipo di merce da trasportare. Ad altri di loro, sottoposti per i motivi più disparati nel corso degli anni a ricostruzioni più severe, capitò di essere privati delle aperture e inseriti nella famiglia dei carri H. Il grande numero dei carri ex ungheresi ci ha permesso di vederne oggi sopravvissuti almeno due: nel frattempo divenuti veicoli di servizio hanno beffato il cannello della fiamma ossidrica il G 7 200 609 e il Vs 7 810 028, entrambi oggi presi in carico da Fondazione FS.
Se la nostra storia finisse qui, questo sarebbe un altro di quegli articoli che trattano di ferrovia marciando solo sul binario assegnato, proprio come fanno i treni, insomma. E invece, come ci è piaciuto fare dall’inizio di questa nuova edizione della RF, andremo ora a raccontare di come una coppia di ordinari veicoli nati nelle ubertose pianure dell’Ungheria, quella del Compromesso del 1867, sia riuscita a trovare un posto nell’eternità per opera, e non è un caso, della settima arte.
Nel giugno del 1965 viene presentato sugli schermi il filmone hollywoodiano Von Ryan’s Express, da noi in Italia Il colonnello Von Ryan. La storia tratta di un gruppo di prigionieri di guerra nel 1943 e della loro fuga dall’Italia verso la Svizzera impadronendosi di un treno. Le FS collaborarono con la produzione mettendo a disposizione una locomotiva a vapore, la 735.236, e un treno di carri merce a cassa in legno, con la specifica richiesta da parte della potente 20th Century Fox di poterne bruciare un paio sulla scena. Le future vittime furono scelte, appropriatamente, tra il vecchiume ex bello, che non era previsto di conservare nemmeno come fonte di ricambi per via appunto dell’origine straniera. I carri furono quattro, tra i quali spiccava una vera rarità, l’ex Südbahn F 7 107 780 a passo 3600 dell’anno 1900.
Nel film è visibile poi piuttosto chiaramente il carro 7 200 529, marcato come G e con correttamente il progressivo cominciante per 2; pur essendo molto più moderno del piccolo austriaco fu da subito deputato a compiti meno raffinati, confermando le assegnazioni un po’ casuali delle officine all’atto degli incorporamenti nelle FS.
Il treno era completato da una dozzina di carri F 1925, che negli accordi tra la Fox e le Ferrovie non avrebbero dovuto subire danni. Invece furono due di loro a bruciare, mentre i vecchi austroungarici ne vennero fuori intatti. Voci della rotaia, il periodico edito dalle stesse FS che riferì compiaciuto della collaborazione data al film, forse per nascondere l’antipatica verità di aver visto incenerirsi dei veicoli ancora utili volle sottolineare che i carri usati come brulotti erano tutti della serie 7 milioni. Per cospargere poi di zucchero la pur veniale piccola bugia rivelò che gli americani se ne erano comprati e portati a casa un paio per ricostruire, presso gli studios, un set di completamento del film. Titoli di coda? E no, ancora una volta la storia non finisce qui.
Nel 1970 arriva in sala un altro blockbuster, M.A.S.H. di Robert Altman, un film sulla guerra in Corea che ebbe così tanto successo da generare poi una serie televisiva. Uno dei set fu montato in una località del New Mexico utilizzata spesso dalle case di produzione. E in una scena, dietro il buon Donald Sutherland, ecco che compaiono due vecchi amici.
Erano proprio loro, i piccoli magiari ex FS, come si legge chiaramente in foto sulla fiancata.
E fu così che due umilissimi carri merce di tavolaccio e ferro, che nella loro lunga vita avevano sgambato per l’Italia trasportando casse, bauli, mucche e cavalli si ritrovarono inaspettatamente coronati dal lauro dell’immortalità. Una gloria di ritorno dopo quel treno del 1896 alla stazione de La Ciotat che rese invece eterni gli inventori del cinema.
Giuseppe Foglianese
Con gli inestimabili contributi di Pietro Merlo e di Alessio Andreacchio
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