Distribuzione al dettaglio

 

Le 685 Caprotti

Di Giuseppe Foglianese
Le locomotive a vapore, scomparse da decenni dalle quotidianità di città e campagne, ci hanno lasciato una loro rappresentazione popolare assai schematica, quasi infantile nella sua semplificazione: un tubo orizzontale, un gabbiotto aperto sul di dietro, delle ruotone a raggi, le bielle, il tender e un bel pennacchio di fumo. Inutile dirlo, non è un ritratto che rende giustizia alla loro varietà di forme e al loro complesso funzionamento. Un particolare che sfugge ai profani, tanto per citarne uno, è la posizione del motore: i più sono portati a dire che sia proprio dentro quel cilindrone, caratteristica estetica preminente della grande maggioranza delle vaporiere, e in fondo il fumo esce da lì, dunque dove altro potrebbe essere? Tutto sbagliato, naturalmente, perché il motore è quell’apparato di modeste dimensioni che vediamo all’altezza delle ruote, nella parte anteriore del mezzo. Si tratta di un blocco di metallo pressofuso che ospita dei cilindri, all’interno dei quali si muovono dei pistoni che, mossi dall’espansione del vapore iniettato in una camera del detto cilindro, a loro volta muovono le bielle le quali, infine, trasformano il moto alternativo in moto rotatorio. Il grosso del corpo della locomotiva è invece il boiler, la caldaia che produce il vapore; cabina, camera a fumo e forno completano poi l’insieme generale.
Uno dei problemi più grandi nella progettazione di una macchina a vapore è quello della distribuzione, ossia della quantità di vapore che viene lasciato fluire nei cilindri; per questioni di termodinamica sulle quali non vogliamo qui dilungarci il motore a vapore necessita di un accurato dosaggio e controllo della pressione nei cilindri, pena la perdita di potenza e, nel caso delle locomotive, di forza di trazione. In tal senso la realizzazione di un apparato di distribuzione il più efficiente possibile è stato spesso al centro dei pensieri dei progettisti, e nel corso dei cento anni di esistenza del vapore ferroviario questo problema è stato affrontato in più modi, con il sistema Walschaerts in prima fila per diffusione e popolarità.
Lo schema del meccanismo di distribuzione Walschaerts. Per un errore di trascrizione del cognome del suo ideatore all’atto del brevetto il sistema è chiamato anche Walschaert, senza la S finale.
La meno raffinata distribuzione Gooch, a sua volta un’evoluzione del sistema Stephenson.

Nel nostro Paese lo sviluppo industriale e tecnologico negli anni tra le due guerre aveva subito una grande contrazione per via delle prescrizioni autarchiche del regime fascista, con inevitabili ricadute sul piano economico; gli ingegneri delle FS erano pertanto costantemente al lavoro per tenere in vita e anzi render sempre più efficienti le locomotive già in servizio. Il gruppo di macchine per treni passeggeri più diffuso, quello della stirpe delle Gr.680 e Gr.685, ebbe a ricevere nel corso degli anni tante di quelle modifiche che ne vennero derivati diversi altri gruppi, il 681 e il 682, il 683 e quello dall’effimera denominazione Gr.686. Questo era stato costituito per sperimentare sulle locomotive Gr.685 un apparato per la distribuzione ideato dall’architetto e ingegnere Arturo Caprotti, basato sull’impiego di valvole e alberi a camme in luogo dei leveraggi tipici degli altri sistemi. Nel 1923 quattro 685 di III serie, segnatamente la 161, la 165, la 167 e la 169, ricevettero così il nuovo meccanismo di distribuzione, andando a formare il gruppo 686 da 001 a 004. I risultati furono assai soddisfacenti e i benefici altrettanto chiari: al netto della maggiore richiesta di manutenzione il meccanismo Caprotti, chiuso in una scatola all’interno del telaio, permetteva di semplificare il biellismo che lasciava ora poco spazio ai moti parassiti dovuti all’inerzia delle masse delle leve aggiuntive dell’apparato Walschaerts. Risultato, maggiori prestazioni e riduzione dei consumi: meglio di così.

La 685.963 è qui ripresa con un treno viaggiatori presso Venezia Santa Lucia intorno al 1955. La locomotiva è già equipaggiata con i fanali elettrici, e la carrozza a cassa in legno dopo il bagagliaio è verosimilmente una “centoporte” rinnovata già ABIz tipo 1910-1914, difficile però dire se riclassata. Foto Archivio ACME.

Alle prime quattro macchine, frutto di trasformazione, se ne aggiunsero subito altre trenta di nuova costruzione, native Caprotti; di queste, dieci furono costruite dalle OM di Milano e immatricolate 686 da 005 a 014, e venti dalla CEMSA di Saronno, con numeri da 015 a 034. C’erano alcune differenze tra i prototipi e le unità di serie, alcune abbastanza evidenti, altre poco apprezzabili, altre ancora decisamente nascoste. La più visibile di tutte era, sui prototipi, la permanenza della leva di inversione sul lato sinistro, reliquia dell’originale distribuzione Walschaerts e non presente sulle locomotive Caprotti di nascita. La leva era in realtà un’asta, prolungamento dell’asse di un volantino in cabina, che tramite un congegno a catena trasmetteva il comando della direzione di marcia. Visibilissimo era anche un’altro particolare: le unità nate come Caprotti erano basate sul progetto delle 685 di IV serie, che avevano la parte anteriore del telaio più lunga di 150 mm rispetto ai prototipi, nati come macchine di  III; entrambe montavano però la caldaia post 1919, con il forno maggiorato rispetto a quello delle prime due serie costruttive. Diversa era poi la posizione e la forma dei convogliatori del vapore esausto dai cilindri alla camera a fumo, simili nei prototipi a quella poi visibile, qualche anno dopo, sulle quaranta locomotive già Gr.680, 681 e 682  trasformate in 685 Caprotti a partire dal 1928.

In stazione di Treviso nel 1960 un treno viaggiatori è al traino dell’elegante 685.980, la Caprotti più longeva: fu venduta per la demolizione solo nel 1966. Foto Sartori.

Sorvolando su altre differenze meno appariscenti, tra le quali le posizioni dei rubinetti degli oliatori e le guide del testa-croce che incidentalmente erano diverse solo nelle unità CEMSA, e ignorando che dal tipo 4C dell’apparato Caprotti dei prototipi 001-004 si passò al 4CN delle unità di serie, per la felicità di coloro i quali cercano mentalmente di districarsi dal groviglio di sigle e numeri annotiamo con piacere che nel marzo del 1929 le FS aboliscono il gruppo 686 rimarcandone le unità come 685. Viste però le anzidette difformità tra i quattro prototipi e le altre trenta macchine, si vanno a costituire due sottoserie: la prima, detta 685.700, comprendeva i quattro prototipi ed era stata studiata per ospitare eventuali trasformazioni in Caprotti di tutte le restanti 685 Walschaerts, dalla 001 alla 241, aumentandone il numero originale di appunto 700; questo programma non fu però mai messo in atto, e le quattro 686 originarie restarono le uniche rappresentanti della serie, assumendo le matricole 685.861, 863, 867 e 869. La seconda sottoserie, comprendente invece le macchine Caprotti di fabbrica, mantenne la numerazione originale aumentata però di 950; evitando di chiederci il perché, prendiamo atto della nuova classificazione: le dieci unità di costruzione OM diventarono le 685.955 – 685.964, le CEMSA  le 685.965 – 685.984.

 

A parte qualche esemplare perso negli anni tra il 1945 e il 1955, le 685 Caprotti di serie giunsero quasi tutte agli anni Sessanta, periodo nel quale cominciarono le demolizioni delle macchine accantonate. Per i prototipi, invece la fiamma ossidrica arrivò prima, e solo la 861 riuscì a giungere al 1962. Foto Archivio ACME.

Ultimo – lo promettiamo – attentato all’equilibrio mentale dei lettori più attenti: cinque delle 685 Caprotti di serie, la 685.965, la 966, la 969, la 972 e la 981, vennero equipaggiate tra il settembre del 1940 e il giugno del 1941 con l’apparato Franco-Crosti e per coprirne l’aspetto sfigurato dagli ingombranti e voluminosi preriscaldatori si decise di carenarle, anche in omaggio alla passione dell’epoca per gli streamliner. Il risultato fu il gruppo 683, le famose Tutankhamon, il sarcofago del quale veniva appunto in mente osservandone il grottesco aspetto finale. Ma questa è un’altra storia, che vi racconteremo un’altra volta.

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