Questo tram non s’ha da fare

di Romano Mölter

Alle ore 18 di domani 18 giugno scadranno i termini per presentare la domanda per il bando di fornitura di tram per la nuova rete di Bologna. È però del 2019, in occasione dell’approvazione del locale Piano Urbano della Mobilità Sostenibile, l’ufficialità del ritorno ai trolley nei programmi di sviluppo del trasporto pubblico della Città Metropolitana. La prima delle quattro linee previste ad entrare in funzione sarà la Linea Rossa, i cui lavori sono a oggi in piena fase di esecuzione. Si verrà così a sanare, forse, un tormentato rapporto della città con uno dei più popolari e amati mezzi di trasporto pubblico, rapporto chiuso nel 1963 e più volte in predicato di essere riaperto da questa o quella amministrazione comunale.

La vettura a due assi 48 in via Monte Grappa davanti al civico 9 in direzione via Nazario Sauro il 6 agosto del 1959. Foto archivio ACME.

A voler andare indietro nel tempo, la storia di Bologna e dei suoi tram era partita già litigiosamente, con un decennio di discussioni, beghe ed azioni legali che ebbero come esito la concessione dell’allora moderno servizio a una società straniera, la belga S. A. Les Tramways de Bologne. Inizialmente a cavalli, il tram di Bologna passò alla trazione elettrica nel 1904, grazie a una serie di interventi finanziari che prevedettero la realizzazione, tra le altre cose, di una propria centrale elettrica.

La 228 sulla linea 4 al capolinea di via Mazzini, sempre il 6 agosto del 1959. Foto archivio ACME.

La compagnia fu poi municipalizzata nel 1924, a seguito di una crescente insofferenza popolare verso le società private, percepite come orientate più al profitto che al servizio. Una modernizzazione del 1935 per volontà dell’allora direttore Giuseppe Barbieri vide l’arrivo dei moderni tram a carrelli, detti appunto “tipo Bologna”, capaci di circa cento passeggeri, che fecero appena in tempo a contrastare la concorrenza del filobus, entrato a sua volta in funzione nel 1940.

Gli interni di una delle cinque vetture corte della serie 300. Si ringrazia Bruno Neri per il contributo. Foto archivio ACME.
Un fotogramma del film “Hanno rubato un tram”, anno 1954: la rimessa di Bologna con vetture di tipo moderno e, sullo sfondo, più antico.

Nel dopoguerra, alle devastazioni di impianti e mezzi  seguì un processo di ricostruzione che rimase incompleto, perché nel 1954 fu deciso di abbandonare progressivamente il servizio tranviario e favorire quello dei mezzi stradali. E così, seguendo il destino di tanti colleghi in tante città italiane, anche i tram bolognesi abbassarono definitivamente i loro trolley: era il 3 novembre del 1963.

La 218 guarda verso Galleria Cavour per l’ultima volta. Foto Walter Breveglieri.

Solo dieci anni dopo, tuttavia, la crisi petrolifera ed il costante crescere del traffico automobilistico costrinsero l’amministrazione comunale a riaprire i temi del trasporto pubblico. C’era chi sognava una metropolitana sotterranea, difficilissima da attuare per via delle fermate troppo ravvicinate richieste dalle ridotte dimensioni del centro cittadino, e c’erano i sostenitori del filobus e quelli degli autobus, e naturalmente c’era anche chi era a favore del ripristino del vecchio tram. E mentre si discuteva, e talvolta si litigava, nella ricerca della soluzione migliore, in città riaffioravano silenziosamente dall’asfalto le vecchie rotaie. Solo però nel 1991, dopo aver ripristinato un primo servizio di filobus, si iniziò a voler riportare materialmente il tram in città: ottenuti i finanziamenti, il comune approvò un progetto per due linee tranviarie, una lungo l’asse portante della via Emilia ed una dal centro città a Corticella. L’amministrazione, certissima della realizzazione, organizzò nel febbraio del 1994 una presentazione ufficiale al pubblico della nuova tramvia, nella centralissima via Indipendenza.
Il compito di costruire le nuove vetture andò alle officine Casaralta, storica firma bolognese, che in quel periodo di crisi di commesse si erano appena consorziate con il gruppo Firema. Fu sviluppato in autonomia un prototipo di tram con il pianale quasi interamente ribassato, costituito da due semicasse che poggiavano per le estremità ognuna su di un carrello tradizionale motorizzato, ed erano unite al centro da un carrello folle con ruote indipendenti di soli 400 mm di diametro. Il veicolo, completato nel 1993, prese il nome di “VTI Firema” e presentava diverse soluzioni interessanti, come i carrelli motori muniti di differenziali (nel centro di Bologna il raggio delle curve era inevitabilmente strettissimo) sui quali gravava gran parte della massa del veicolo, a tutto vantaggio dell’aderenza; il carrello centrale fungeva dunque esclusivamente da fulcro di rotazione tra le due casse e sosteneva pertanto una minima parte del peso. Questa configurazione permise di ridurre al minimo gli ingombri ma anche di ottenere un passaggio interno tra le due casse particolarmente ampio. Le ruote motrici, improntate anch’esse al minimo ingombro possibile, avevano un diametro di 690 mm a nuovo. Un’altra novità furono le due porte sui frontali per l’evacuazione del mezzo nei tratti di linea in galleria, in prospettiva di un eventuale utilizzo come metropolitana leggera. Le quattro porte regolari, con funzionamento ad espulsione, erano poste su una sola fiancata, rendendo il mezzo pertanto monodirezionale; apposite pedane retrattili favorivano poi l’incarrozzamento dei viaggiatori, ed erano atte anche al passaggio e trasporto di una “carrozzella handicappati”, secondo la dicitura dell’epoca, oggi poco politically correct.

Il VTI in un’immagine di fabbrica. Foto Firema, archivio ACME.

L’azionamento era elettronico a chopper GTO, di costruzione Ercole Marelli, consentiva un eventuale frenatura a recupero e il comando multiplo di più unità con accoppiatori automatici; l’elettronica era alloggiata principalmente all’interno del veicolo anziché sul tetto, per ridurre il più possibile l’altezza e quindi i costi di realizzazione di eventuali tratte in galleria.

Da una brochure Firema, archivio ACME.

Onde presentare alla cittadinanza il nuovo tram, nel febbraio 1994 fu chiusa al traffico la parte iniziale di via Indipendenza, ed allestita un’esposizione dedicata. Oltre al VTI Firema, in bella vista di fronte alla famosa statua del Nettuno, illuminato e visitabile da un simulacro di futura fermata, furono piazzati sui binari anche due tram storici, presi in prestito dal mai inaugurato museo ATC: la storica motrice a carrelli 218, recuperata completa anni prima dalla STEFER di Roma presso la quale aveva concluso la sua carriera, e la consorella a due assi 121, la cui cassa era stata fortunosamente recuperata presso un demolitore e posta su di un “truck” ricostruito, senza motori e parte elettrica. Su di un banchetto era inoltre esposto uno spezzone di rotaia annegato nella gomma, tra due flange metalliche, a illustrare il sistema che sarebbe stato usato in centro per ridurre, se non eliminare del tutto, le vibrazioni che il tram avrebbe trasmesso ai tanti palazzi storici.
Nei mesi successivi, in occasione dei festeggiamenti per i 100 anni del tram elettrico a Milano il VTI fu trasportato lì ed esposto proprio accanto al Duomo; spostato poi nella rimessa del Leoncavallo vi rimase per quasi tutto il 1994, a disposizione per eventuali prove. La crisi delle officine Casaralta nel frattempo però aveva raggiunto il punto di non ritorno: la chiusura arrivò nel 1998, e del prototipo non si parlò più, scomparso come la fabbrica che lo aveva creato.
A Bologna il progetto naufragò invece definitivamente nel 1999 con l’elezione del nuovo sindaco Guazzaloca, che cavalcando un certo populismo dell’epoca aveva dichiarato in campagna elettorale di voler cancellare, tra le altre cose, proprio il nuovo tram. La città e l’amministrazione ripresero così a parlare del problema dei trasporti pubblici urbani seguendo l’inconcludente politica del nuovo Primo Cittadino, tutta vincolata alle promesse fatte in campagna elettorale. A schiarire la situazione ci pensarono le prescrizioni della legge 211/92 e riprese dalla 443/2001, la famosa “Legge obiettivo”, che vincolavano le sovvenzioni per il trasporto comunale alla “installazione di sistemi di trasporto rapido di massa a guida vincolata in sede propria e di tranvie veloci, a contenuto tecnologico innovativo”. Per non perdere i soldi la nuova giunta decise di riprendere in parte l’idea del tram, sostituendolo con un mezzo gommato a via guidata otticamente, il “Civis” della Irisbus. Da qui in poi, il baratro: i 49 filobus speciali, con il loro posto di guida centrale e lunghezza superiore a 18 metri, per questioni tecniche ed amministrative non potevano circolare come filobus normali; la loro guida ottica poi non era altro che una coppia di linee bianche tratteggiate sull’asfalto, lette da una telecamera posta sopra la cabina di guida. Peccato però che a Bologna gli alberi, l’inverno e la pioggia non manchino e il sistema, tra il fogliame, la neve, l’asfalto sporco o consumato, non abbia mai funzionato. E per di più non ottenne mai l’autorizzazione alla circolazione da parte del ministero dei trasporti, con un danno erariale quantificato da alcuni come superiore ai 90 milioni di euro.
Insomma, dopo oltre sessant’anni di disordinatissimi sprechi di tempo e soldi, speriamo questa sia veramente la volta buona per rivedere in funzione il tram a Bologna, e di poterlo presentare presto anche su queste pagine.

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