Solo posti in piedi

In copertina: un Diretto da Milano transita all’altezza di Bari Parco Nord con il suo carico di bagagliai e postali. Foto Archivio ACME.


Di Giuseppe Foglianese

ATTO UNICO: COME COMINCIA IL NATALE di un ragazzo che da Milano torna nella sua città al Sud? La scena si svolge a Milano, personaggi e interpreti: il ventenne Carlo Sforza e, naturalmente, il treno. Sono le undici e qualcosa, Carlo è sulle scale,  destinazione agenzia di viaggi a un quarto d’ora a piedi; deve fare il biglietto e poi tornare indietro, chiudere casa, prendere il bagaglio o meglio, farlo, e andarsene in stazione.  È la Milano del 22 dicembre del 1977, in quell’Italia nel pieno del subbuglio emotivo del periodo che sarebbe stato ricordato come Notte della Repubblica. In agenzia c’è una gran confusione, tanta gente che lascia la città per le vacanze natalizie ormai iniziate, perché domani è venerdì 23 e gli uffici e gli studi privati faranno al massimo mezza giornata. Carlo si siede davanti all’impiegato alle dodici in punto. “Vorrei una cuccetta per Taranto domani sera, sul treno delle ventitrè, credo”. L’impiegato, cortese ma già un po’ stanco, risponde che non c’è il diretto per Taranto e che a Bari avrebbe dovuto cambiare. Carlo annuisce, pensando tra sè di non averlo specificato perché superfluo. “Niente cuccette sul 513, tutto prenotato”. “Va bene, prenderò una cuccetta su di un altro treno. C’è quello che parte alle 20:40 mi sembra”. “Niente anche su quello”, risposta, “E le posso dire che sono esauriti anche i posti Wagon Lits su entrambi, perché li cercava un signore poco prima di lei.”

Lo scompartimento di una carrozza con cuccette di seconda classe.

Wagons Lits, carrozza letti, no, per carità, e chi ce li ha i soldi. Alle 13.100 Lire del biglietto di seconda classe Carlo dovrebbe aggiungerne infatti, secondo la tariffa stabilita per le percorrenze da 751 a 1000 km, ben 13.000 per una T3, ovvero un letto in uno scompartimento diviso con altri due passeggeri, oppure 16.000 Lire per una T2; per intenderci, il supplemento cuccetta ne costa 3.500. Ci sono due altre opzioni, la singola in compartimento doppio da 22.000 Lire e la singola nativa da ben 34.000 di supplemento. Sarebbero quasi 50.000 Lire di biglietto, fantascienza per le finanze di uno studente, per quanto figlio di una famiglia che non gli fa mancare nulla.

Una carrozza letti YC, sogno proibito per Carlo, tra una carrozza X di prima classe e una mista con cuccette in composizione all’Espresso 515, qui in sosta a Bari nel settembre 1979. Foto Archivio ACME.

Con gli espressi 513 e 515 andati, cosa resta? Il 505, naturamente, che però parte alle 17.44 e lo farebbe scendere a Bari alle 5.42 del giorno dopo. Ma a che serve prendere una cuccetta, dormire poco e male, in compagnia di cinque sconosciuti, chiuso in una micro spazio di due metri quadri per svegliarsi all’ora del gallo? A quel punto, meglio una poltrona di prima classe: costerebbe 23.700 Lire, certo, più della cuccetta di seconda, ma magari la carrozza si svuoterà strada facendo e lui potrà stendere un po’ le gambe, togliendosi le scarpe. Ma no, impossibile, se i treni sono pieni sin d’ora, figuriamoci se non lo saranno per tutto il viaggio. Resta poca roba, a quel punto, per arrivare in tempo per la cena della Vigilia. “Potrei prendere il Rapido di domani mattina”, chiede. “Vediamo, l’839, partenza alle 8:15, arrivo a Bari alle 17:10”, e ciò significherebbe raggiungere Taranto non prima di sera. Sono poi giorni nei quali le parole chiave più ricorrenti tra giornalisti e commentatori sono “sciopero” e “ritardo”, pertanto è inutile farsi l’illusione di un ritorno a casa facile, e poi il Rapido è caro anch’esso: 6.700 Lire in più di supplemento, anzi 8.200 perché l’839 prevede la prenotazione obbligatoria, e questo lo rende ancora più costoso. Ultima opzione, suggerita con poca convinzione dall’impiegato: il TEE 93, il famoso “Adriatico”. Sogno impraticabile, per l’orario di arrivo a Bari alle 20:55 ma anche per l’esorbitante biglietto da 23.700 Lire più 10.000 di supplemento speciale per un treno che più VIP non si può, con carrozze di sola prima classe e con un aristocraticissimo servizio ristorante al tavolo.

Il Treno TEE 93 “Adriatico” è appena ripartito da Bologna e transita all’altezza del Parco Salesiani nel novembre del 1976. Foto Archivio ACME.

Ma allora come si torna a casa? Esiste una sola via d’uscita, suggerisce l’impiegato, ormai in empatia con la vicenda di Carlo: fare il biglietto di seconda e buttarsi all’avventura su di un Espresso qualsiasi dei tre in programma quel giorno, sperando in un posto libero. Poco plausibile, ma non c’è altra scelta.
Carlo torna nella sua stanza a Milano in via Francesco Reina, e decide rapidamente il da farsi: prendere il 505 delle 17:44 che potrebbe essere meno affollato dei due serali, andando comunque in stazione molto prima per prendere posto e prepararsi a difenderlo poi con le unghie durante il viaggio. Ma facciamo le cose in ordine, pensa, c’è anzitutto  la 91 da prendere per arrivare in Centrale. Sceso dal filobus e arrivato in vista della banchina della futura partenza dell’Espresso 505, gli si presenta una scena da dipinto di Bruegel: nonostante il treno non sia ancora al binario, il marciapiede da dove partirà è invaso da dozzine e dozzine di persone che di fatto lo hanno già reso inaccessibile, e anzi avvicinandosi si vede ora la calca estendersi quasi fino alla fine della grande tettoia. Milano comincia ad apparire a Carlo come una piovra che estende i suoi tentacoli per trattenerlo a sé, ma in realtà la colpa è solo sua, perché decidersi a prenotare il 22 dicembre un biglietto da mille chilometri è stata una pretesa che il fato non poteva che giudicare assurda. Istintivamente, Carlo mette mano in borsa e ne trae l’orario Pozzo, che una qualche divinità della ferrovia gli aveva suggerito subliminalmente di portare con sè. Ci vuole carta e penna, e vedere quello che si può combinare incrociando treni, coincidenze e comporti. Passati quindici minuti e un caffè, la soluzione, l’unica per evitare di essere lasciato a terra, è più il sortilegio di uno stregone che un piano di viaggio: prendere un Locale fino a Piacenza e intercettare lì alle 18:46 le carrozze dirette dell’Espresso 1513, che sarebbe arrivato a Bari alle 5:30. Qualcuno dice che l’avventura ti motiva, e a Carlo viene di sentirsi d’accordo.
Il locale 12451 parte però da Lambrate, ma solo alle 17:32, quindi c’è un’ora abbondante per arrivarci, si va a piedi? Sì, così mi passa il tempo, e poi la mia Samsonite ha le rotelle, pensa Carlo. Sono le 16:50 quando sale le scale della stazione. A parte un discreto movimento di pendolari, il traffico sembra quello di tutti i giorni, e l’atmosfera consumistica del Natale è visibile solo in alcune ghirlande luminose sui balconi in lontananza e per un rachitico abete in plastica bianca fiaccamente addobbato davanti all’Ufficio Movimento. Il treno è sul binario alle 17 in punto, affidato a una E.636. La composizione è da manuale, un postale 97.100, un bagagliaio 92.000, una Bz 31.000 e quattro Centoporte 36.000; in pratica un treno con sole sedute in legno, ancora nel 1977.

La forbice è strettissima, l’arrivo a Piacenza è previsto per le 18:43, solo tre minuti prima della partenza del 1513 e diciassette prima del 505, il treno che non aveva voluto prendere a Milano. Arriva la prima fermata, Rogoredo, accompagnata dall’ansia del primo minuto perso; poi San Giuliano, Melegnano, San Zenone, Tavazzano. Adesso Lodi, Secugnano e Casalpusterlengo, dove la sosta dura altri interminabili cinque minuti, mandando il treno in un ritardo che aumenta ancora a Codogno e che al capolinea di Piacenza ammonta a undici minuti. Ma il 1513 è lì, o meglio, le carrozze dirette per Bari non sono ancora partite; Carlo scende dalla Centoporte, preferita alla 31.000 per via della maggiore facilità di discesa, e raggiunge la Bz già 33.000, col tetto bicolore dagli spioventi appena riverniciati in argento e la parte superiore lasciata sporca e bruna. Inutile a dirsi, gli scompartimenti sono già tutti occupati, così come gli strapuntini nei vestiboli. Nel frattempo arriva in stazione il 505, è strapieno e ha un lieve ritardo anch’esso. Carlo, in piedi, lascia Piacenza sulla 33.000, destinazione Bologna, l’Adriatica e poi Bari, dove spera di arrivare non troppo più tardi delle cinque e mezza del mattino del giorno dopo, quello della Vigilia del Natale.

Una carrozza Tipo 1946 già Bz 33.000, sempre presente sui tantissimi treni popolari a lunga percorrenza degli anni Settanta. Foto Archivio ACME.

Inizia così la prima delle lunghe serie di fermate intermedie: Fidenza, Parma, Reggio Emilia, Modena. Si comincia a percepire l’odore del cibo portato dai passeggeri, previdentemente, perché a bordo non è presente il servizio ristoro. Invaso ormai da un appropriato profumo di mortadella, il treno entra a Bologna Centrale con ormai ventidue minuti di ritardo. Se però Messenia piange, Sparta – ovvero il 505 appena dietro – non ride di certo, con la sua mezz’ora abbondante lasciata sui binari. Le carrozze del 1513 provenienti da Piacenza vengono ora agganciate alle altre pronte lì a Bologna, ormai anch’esse al completo, per una composizione finale che consta di sedici tra vetture e bagagliai al traino della E.645 016. Il flusso di viaggiatori in salita non si ferma, e Carlo si domanda come sarà il resto del viaggio, perché la situazione adesso è simile a quella del 505 preso d’assalto in Centrale a Milano e il fatto di essergli ormai parecchio davanti non è di consolazione. Il treno riparte: sono le 21:15, i minuti oltre l’orario sono adesso venticinque.

La E.645 016 del racconto, qui a Rimini nel luglio del 1974, alla testa di un Diretto tra Lecce e Milano e dunque in direzione inversa rispetto al 1513 di Carlo. Foto Michele Mingari.

Il 1513 si rivela per quello che Carlo temeva potesse essere: un trenaccio, la traccia del quale non è poi diversa da un Diretto, e anzi poco prima su quegli stessi binari ne era passato uno, il 2513 con termine corsa Ancona che aveva fatto solo alcune fermate in più: Forlimpopoli, Sant’Arcangelo, Riccione, Fano e poco altro. A Forlì e Rimini salgono ancora altri viaggiatori, senza che ne scenda nessuno, o quasi. I vestiboli sono stracolmi di gente, qualcuno cerca di trattenersi dallo scivolare lungo le pareti per sedersi a terra; chi ha una valigia di plastica rigida, come Carlo, ha anche la fortuna di poterla usare come seduta estemporanea. Le ritirate, ovvero i bagni dei treni, sono irraggiungibili, e coloro i quali soffrono di bisogni non procrastinabili devono sfidare una giungla dei passeggeri in piedi, tutti fortunatamente comprensivi e pronti ad aprire un passaggio. I corridoi sono infatti totalmente impraticabili, al punto che per passare da una carrozza all’altra si farebbe prima ad aspettare una stazione e muoversi sul marciapiede. La speranza di molti di vedere il treno alleggerirsi dopo Pesaro comincia a vacillare: quante persone mai sarebbe necessario che sbarchino per poter respirare un po’ d’aria? La prescrizione di non fumare nei passaggi e negli spazi non preposti appare una cosa pia, e si comincia a vedere le cicche di sigarette spente sul pavimento perché i finestrini non si vogliono aprire, fa freddo, non siamo forse a dicembre? Anche chi è seduto negli scompartimenti non se la passa benissimo, perché la pressione nel resto della carrozza spinge i passeggeri in piedi a occupare lo spazio tra i divani. Carlo pensa ai viaggiatori del 505, quelli che avevano prenotato la cuccetta in anticipo, e che adesso erano stesi, mezzi appisolati, magari con un libro di appendice in mano, aspettando di vedere passare la nottata.

Le E.645 poliedriche, limitate in velocità ma di grande potenza, erano le macchine ideali per i treni a lunga percorrenza a fortissima composizione.

È mezzanotte inoltrata quando il 1513 arriva ad Ancona, e il pensiero che si sia ancora a meno di metà del viaggio è disturbante per il povero Carlo, appollaiato più che seduto sulla sua Samsonite. La schiena comincia a dolere, i piedi chiusi in delle Clark’s verde scuro non ne parliamo. Ad appesantire la situazione psicologica, poi, spunta una chitarra, tirata fuori da un lungagnone accovacciato a terra e accompagnato in viaggio da due ragazze con i capelli grassi e anzi un po’ oleosi. Il ragazzo ha la classica voce grave, non sgradevole ma a quell’ora, in quelle condizioni risulta tutto insopportabile. Piove poi sul bagnato quando i tre in coro fanno partire un repertorio di canzoni da oratorio, con testi come “O come è bello e gioioso Signor / abitare nella tua casa / dove ognuno si riposa / ed il cuore è pieno di gioia”.
Loreto, Civitanova, San Benedetto del Tronto e Giulianova sfilano nella notte che sembra profonda e inoltrata, ma in realtà si è solo poco prima dell’una. A Pescara Centrale avviene l’ormai quasi insperato: il treno si svuota cospicuamente, e spuntano i primi posti a sedere. Carlo però non ne trova ancora uno libero, ma almeno nel corridoio si respira e la toilette, maleodorante di urina, è se non altro ora accessibile con facilità. Proviamo allora a cercare nelle altre carrozze, pensa Carlo, e si avvia istintivamente verso la testa del treno. Per arrivarci passa attraverso una delle venticinque Az 50.800 ultracinquantenni ancora in servizio, anch’essa piena di gente seduta. “Chissà quanti hanno davvero il biglietto di prima classe”, fa tra sè e sè. L’ultima carrozza, ovvero la prima dalla parte della testa treno, è una 32.000 ed è preceduta da un bagagliaio-posta delle serie del dopoguerra, probabilmente un 93.100: il diversivo dell’arrivare al muso della locomotiva per passare lì qualche minuto in trance sfuma nel niente dell’intercomunicante chiuso. Sono le due inoltrate.

L’Espresso 1523, un treno analogo al 1513 del racconto, qui a Foggia il 9 Giugno 1978. In bella evidenza, dietro la E.646 060 già senza modanature, la bella carrozza letti tipo P di acciaio inox. Foto Archivio ACME.

Si arriva a Termoli e la discesa di un misericordioso passeggero libera, finalmente, un posto per Carlo. I suoi occhi cerchiati dal sonno sono ormai chiusi quando il treno ferma in una stazione dove il giorno prima era sceso, proveniente da Bologna, Andrea Pazienza. Era la stazione del suo paese adottivo, al quale dedicherà molti anni dopo nel suo volume “Sturiellet” alcuni versi ripresi da una poesia altrui: “San Severo / città del mio pensiero / dove prospera la vite / e l’inverno è alquanto mite”. *

EPILOGO: Carlo Sforza dormirà della grossa fino a Bari, con in sottofondo il solo bordone metallico della sua 32.000. Ne discenderà solo alle 6:43, con la bocca impastata e il collo dolorante, e risalirà alle 7:22 sul Diretto 2575, partito in lieve ritardo. Arrivato a Taranto alle nove e mezzo circa, riuscirà a concedersi una doccia e un sonnellino prima di sedersi a tavola in famiglia. Il 1513, nel frattempo ricoverato e pulito, tornerà a Bologna partendo in serata, naturalmente con altra denominazione, per godersi anche lui le vacanze natalizie: “Sospeso nei giorni 25-XII-77 e 1-I-78”, parola dell’orario ferroviario invernale del 1977.

* la vera origine dei versi è stata ricostruita da Francesco Giuliani:  San Severo, Mandes e Andrea Pazienza

Lascia un commento

Your email address will not be published.